Se ne è andato con la velocità di una folgore, con la velocità con cui annichiliva gli avversari.
Il calcio italiano dice addio a Gigi Riva, l’eroe eponimo più autorevole del suo pantheon: lo chiamavano Rombo di Tuono, metteva l’onore sopra ogni cosa. E per raccontarlo davvero ci vorrebbero la poesia del suo amico De André e l’inventiva del suo cantore Gianni Brera. Perché se c’è stato in Italia un calciatore che pur essendo mito è riuscito a restare un uomo, quello è stato Giggirriva, come lo chiamavano i suoi “corregionali’ sardi”. Che lo hanno venerato da quando, nel 1963, arrivò sull’isola: doveva rimanere al massimo un paio di stagioni, per sfruttarla quale trampolino di lancio, e invece non se n’è più andato, fino all’ultimo giorno della sua vita, oggi. “Perché qui – spiegò a chi gli chiedeva il motivo di una scelta controcorrente – io che in pratica non avevo famiglia, ne ho trovate tante”.
Riva rimase in Sardegna, nonostante le grandi squadre lo avessero inseguito e l’allora presidente juventino Boniperti ne avesse fatto quasi una malattia: lo inseguiva con offerte straordinarie, lui continuava a dire no e a segnare in rossoblù. Diventò un simbolo dell’uomo libero e orgoglioso, al punto che persino il latitante Mesina, travestito da frate, lo andava a vedere al vecchio stadio Amsicora, soggiogato dalle giocate e dalla personalità di Riva. Ma al di là del suo orgogliosissimo essere un sardo nato sulle rive del lago Maggiore, Riva incarnò presto un idolo per tutta Italia.
Per la maniera dirompente di segnare (mai un gol d’astuzia, sempre grandi reti di testa o con il suo leggendario sinistro). E per quella generosità che lo portava a dare tanto a tutti, oltre a un paio di devastanti fratture alle gambe alla causa azzurra. Ha vinto poco, in relazione al moltissimo che valeva: e comunque uno scudetto con il Cagliari, quello storico del 1970, quanti ne vale di quelli conquistati dagli squadroni del continente? Infatti, con il razzismo tollerato di quegli anni, i tifosi di questi club accoglievano i giocatori rossoblù chiamandoli “pecorai, banditi”. Perché, inopinati ospiti, partecipavano finalmente a un banchetto al quale non erano mai stati invitati.