Un uomo solo al comando. Da 100 anni. Ricorre in questi gironi il centenario della nascita di Fausto Coppi, mito intramontabile di un ciclismo d’altri tempi. La morte a soli 40 anni lo ha sottratto all’affetto dei tifosi, compresi i tanti che ne hanno ammirato le imprese sportive solo attraverso le immagini in bianco e nero dell’epoca, e dei suoi cari. “Avrei voluto sentire dalla sua voce molti racconti e i tanti consigli che non ha avuto il tempo di darmi. Mi manca ancora tanto”, dice Faustino, il figlio che porta il nome del campionissimo. Quando il celebre padre è morto, ucciso il 2 gennaio 1960 da una malaria contratta durante un viaggio in Africa e non diagnosticata, Faustino aveva soltanto 4 anni.
L’Airone, come Coppi era stato ribattezzato, perché al posto delle gambe sembrava avesse le ali e, invece di pedalare, volava, aveva già vinto tutto: cinque Giri d’Italia, due Tour de France, tre Milano-Sanremo, una Parigi Roubaix. E ancora tre Mondiali, due su pista e uno su strada, quattro titoli italiani, cinque Giri di Lombardia. Figlio di contadini nato a Castellania, tra colline e vitigni dell’Alessandrino, aveva preferito chinarsi sul manubrio anziché sulla terra. E da lì, dove tornava sempre, ha conquistato il mondo. “Sono passati quasi 60 anni dalla sua morte, eppure il ricordo è ancora così vivo” prosegue Faustino, che ricorda “il padre esemplare”, nonostante le polemiche per la relazione extraconiugale con la madre, la “Dama bianca” Giulia Occhini, sposata in Messico dopo che per lei il campionissimo aveva abbandonato la famiglia. “Attraverso il ricordo di chi l’ha conosciuto ho scoperto il Coppi ciclista, l’eroe sportivo, il mito – racconta il figlio – ma anche l’uomo semplice e quel padre di cui ho perso l’abbraccio troppo presto”.
Un uomo “generoso e disponibile – lo descrive – che cercava di fare le cose non solo per se stesso, che viveva il rapporto con gregari e avversari basandosi sul rispetto reciproco”.
Ne è un esempio la rivalità con un altro grande delle due ruote come Gino Bartali, la foto dello scambio della borraccia sul Col du Galibier al Tour del 1952 simbolo di una rivalità sportiva che raggiunto il traguardo si trasforma in profonda amicizia. E anche dell’Italia divisa del Dopoguerra che si ritrova unita nell’ammirare le loro imprese. “Il ciclismo allora era lo sport più importante – dice ancora Faustino – ma gli atleti al loro livello non erano molti”. E forse non lo sono nemmeno quelli contemporanei. “Solo Pantani – ammette – è riuscito a farmi appassionare”. Sostituire un padre così nel suo cuore, del resto, era impossibile. “Lo ricordo in casa, meno sulla sua amata bicicletta – conclude Faustino – Era molto affettuoso con me, non alzava mai la voce. Quando era a casa era lui che mi svegliava e mi dava da mangiare. E quando tornava dai grandi Giri mi portava sempre un regalo”. Ricordi del figlio di una leggenda che, un secolo dopo la sua nascita, non accenna a tramontare.